’L me par miga vera, ma l’è ‘ndacia propri iscì
“’L me par miga vera, ma l’è ‘ndacia propri iscì”: è passato tanto tempo, ma il ricordo di quei due anni trascorsi nei campi di concentramento prigionieri, anzi schiavi di Hitler (secondo la definizione giuridica attribuita dallo storico tedesco Gerard Schreiber) è indelebile nella memoria dei valtellinesi – circa 5mila – che in questi posti hanno lasciato una parte della propria anima. Una pagina di storia poco conosciuta, che la propaganda fascista contribuì a deformare dipingendo i prigionieri come “lavoratori liberi”, ma che Pierluigi Zenoni – figlio del prigioniero Fausto Zenoni scomparso da poco – ha voluto restituire alla Storia, quella con “s” maiuscola, nel suo libro “Valtellinesi schiavi di Hitler” presentato sabato sia a Tirano sia a Chiuro (all’interno della rassegna “Ponte in fiore”). Nel libro, dopo la ricostruzione storica delle vicende, si legge la parte coinvolgente con le testimonianze di chi quell’inferno lo ha vissuto, oltre ad alcuni scritti. Infine l’ultima parte con le annotazioni derivanti dall’analisi dei 450 fascicoli che la Cgil ha raccolto per inoltrare le domande di concessione dell'indennizzo per il lavoro coatto. «È straordinario leggere le testimonianze di convalligiani che con fierezza hanno saputo dire di no e sono stati caricati su vagoni merci e deportati – ha detto il presidente della biblioteca di Chiuro, Giorgio Baruta affiancato da quello di Ponte, Claudio Franchetti -. È importante fare memoria». Gli Imi (internati militari italiani) sono stati considerati come prigionieri di guerra, dunque non aiutati dalla Cri, guardati con sospetto al loro ritorno e poi esclusi dall’indennizzo. «Questo libro è un risarcimento visto che la memoria è costruttrice di civiltà», ha rimarcato Fausta Messa, direttrice dell’Istituto sondriese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.
Non c’è Comune in provincia che non annoveri la presenza di Imi. Ma come vissero? Zenoni lo ha raccontato nel modo con cui alcuni di loro lo hanno raccontato a lui, trasferendo l'emozione grande nella narrazione. Nelle testimonianze sembra di vedere scorrere le immagini di un film con vicende simili, ma con attori e dettagli diversi. «Questo fa diventare le piccole storie dei nostri valtellinesi un contributo a scrivere la grande Storia - ha detto Zenoni -. Mi limito a raccontare e trasmettere. Di mio ci metto il filo che lega insieme il racconto, ma la stoffa ce l’hanno messa i testimoni». Infine una considerazione: «Gli internati nei lager divennero tali perché rifiutarono di aderire alle divisioni della Repubblica sociale italiana. Il libro è scritto per far sapere ai giovani o a chi non ha memoria di queste vicende di quali sacrifici e quali dolori sia fatta la nostra conquistata libertà. Gli uomini soli al comando non garantiscono mai il buon governo. Parafrasando Gaber dico: la libertà continua ad essere partecipazione».
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